Va detto: Identità Golose è un’esperienza straordinaria.
Ed estremamente istruttiva
Io per esempio ho imparato un sacco di cose.
Tra cui una importantissima: ho una idiosincrasia assolutamente fuori moda.
Ebbene sì, lo confesso: il cosiddetto quinto quarto per me esula dal materiale commestibile.
Passi per il Civet di lepre di Bottura, ricetta-metafora concettuale e provocatoria, che sarebbe piaciuta immensamente ad uno dei miei registi preferiti, Peter Greenaway.
La lepre, mantecata con foie gras, vaniglia e schiuma di caffè è “seppellita” in un pane di bosco impastato con aghi, cortecce, resine e funghi ed è accompagnata da un bicchierino di salsa al sangue e vino rosso calda a parte.
La questione è puramente filosofica: per Bottura “oggi non si cerca la bellezza, ma la verità”, mentre io, con Keats, penso che “Beauty is truth, truth beauty”.
Anche perché, se così non fosse, dovrei cambiare mestiere.
Ma poi mi imbatto nella cucina estrema di Nielsson che racconta l’interessantissima tecnica di consrvazione delle verdure in sabbia, ma propone anche delle conturbanti tartine di midollo e cuore di bue crudo con germogli d’orzo.
Incontro Lisa Casali che mi racconta di Aizpitarte e dell’amusebouche di cuori d’anatra anatra saltati con sesamo, grano saraceno, coriandolo e cacao con cui ha accolto l’auditorium il giorno prima.
Cerco rifugio in sala rosa per l’evento di Emiliaromagnacuochi e pure lì Igles Corelli propone un risotto con pezzetti di carne e frattaglie servite con pop-corn di cotenna.
Ragazzi, mi sono arresa.
Non c’è niente da fare: sono gastronomicamente demodé.
Eppure, nonostante la suddetta idosincrasia, sono una foodie inveterata.
Lo giuro sulla mio Artusi e anche sul mio Brillat-Savarin.
E a parte la presa di coscienza dei limiti del mio palato, tutto il resto è stato meraviglioso.
A partire da amici e colleghi foodie, incluse parecchie blogger che ho avuto il piacere di incontrare o ri-incontrare.
Ma anche le folgorazioni della zuppa di terra di Yoshihiro Narisawa, e della Pasta e mastica di Cracco, dove “mastica” non è un imperativo, ma la resina grassa di Chio, con cui ha condito i suoi rigatoni con funghi porcini.
O Gianluca Fusto che ha trasformato la pasta in un dolce, inventato altri due sensi e registrato il più alto tasso di spintonamento-verso-gli-assaggi di tutti gli interventi a cui ho assistito.
Corrado Assenza, pasticcere filosofo che crea dolci che sembrano letteratura, e che ne ha dedicato uno crepuscolare ad un amico scomparso, a base di crema di lenticchie al cacao, crema di ricotta, pan di spagna alle mandorle e gelatina di tè.
I fratelli Costardi, che hanno fatto il miracolo di creare il risotto al pomodoro perfetto, guarendo in contemporanea almeno metà dell’auditorium dal trauma che (quasi) tutti ci portiamo dietro: quello del riso al pomodoro immangiabile da asilo-refettorio-mensa aziendale (barrare la casella adeguata).
Gennaro Esposito, che con il suo risotto con broccolo nero, limone mantecato, burrata e triglia marinata allo zenzero candito ha fatto salivare indecorosamente l’intero auditorium e invidiare i pochissimi fortunati che sono riusciti ad assaggiarlo.
Loretta Fanella (quella dello splendido Oltre, per intenderci), con la sua interpretazione della birra in versione dessert equilibratissima, sebbene complessa e sfumata.
Per colpa delle sue meravigliose meringhe al miele di castagno cotte all’essiccatore mi sono follemente innamorata del suddetto strumento.
E molto, molto, molto altro.
Esperienza ricca e forte, Identità Golose.
Forse troppa per poter essere raccontata interamente da una persona sola, per di più dotata di scarpe scomode e senza il dono dell’ubiquità.
L’anno prossimo mi attrezzo.
Almeno con le prime.
Credits: logo del convegno dal sito di Identità Golose
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